A distanza di un anno da quando abbiamo iniziato a trattare il tema inflazione la situazione è la seguente:
Inflazione in USA nel 2022
Negli Usa siamo passati dal 5,2% di un anno fa all’8,5% attuale dopo una punta massima del 9,1% toccato in luglio.
Inflazione in Europa nel 2022: Italia e Germania
In Germania l’aumento dei prezzi ha accelerato dal 3,9 al 7,5% negli ultimi 12 mesi. Il dato preoccupante è che in Germania l’inflazione ha toccato esattamente i massimi degli anni ’70, cosa che non è ancora accaduta negli Usa. Questo crea forte nervosismo fra la popolazione tedesca che ha visto da sempre l’inflazione come il nemico numero 1 da combattere. In un futuro più o meno vicino ciò potrebbe creare qualche tensione all’interno dell’Unione Europea in tema di politica monetaria. In Italia il tasso di inflazione ha sfiorato l’8 percento tra giugno e luglio.
Inflazione in Asia nel 2022: Giappone e Cina
In Giappone l’inflazione è salita da un valore di zero al 2,5%. Da ricordare che da molti anni il paese del Sol Levante è alle prese con un problema di deflazione, scongiurata da una politica monetaria ultra aggressiva.
In Cina l’inflazione in 12 mesi è passata dallo 0,80 al 2,7% . Il contenimento è dovuto all’azione del governo che ha impedito in molti casi l’innalzamento dei prezzi.
L’andamento dei tassi reali nel 2022
Per molti mesi, da quando l’inflazione ha ripreso a salire con ritmi più accesi, le banche centrali hanno continuato a definire il problema come “transitorio” per poi ricredersi dopo la guerra tra Russia e Ucraina, che ha provocato un effetto “scarsità” (dovuto principalmente alle sanzioni) e complicato ulteriormente la catena produttiva. Si è venuto quindi a creare un’inflazione da “diminuzione da offerta”, piuttosto che da aumento di domanda. E in questi casi la politica monetaria può fare ben poco.
Nonostante l’inflazione sia frutto di una diminuzione di offerta, la Fed ha alzato i tassi portandoli in pochi mesi da zero al 2,50 fissato a luglio, con l’intenzione di raffreddare la domanda. L’aumento dei tassi, stando a quanto sta dicendo il mercato, dovrebbe proseguire fino a dicembre per arrivare tra il 3 e il 3,25%.
La cosa interessante è che negli ultimi dodici mesi, nonostante le politiche monetarie restrittive, i tassi reali a breve sono scesi in modo drastico.
I Tassi reali non sono altro che la differenza algebrica tra i tassi a breve applicati dalla Banca Centrale e il tasso di inflazione.
In questo grafico, ad esempio, puoi notare come i tassi reali in Germania abbiano raggiunto un livello negativo di 6,8%, Ciò significa che un capitale di 100 mila euro, investito a un rendimento di mercato a 10 anni, dopo 12 mesi perderà 6.800 euro in termini di valore reale.
La realtà quindi è che le Banche Centrali sono ben lontane dall’alzare i tassi a livelli simili agli anni ’70 e ’80, semplicemente perché il sistema altamente indebitato non lo permette. Negli anni ’70 infatti, il debito cumulato tra pubblico e privato era tra un 50 e un 70 percento del pil, mentre oggi sfioriamo il 300%. Ciò significa che, ai giorni nostri, un punto di rialzo dei tassi equivale a circa 4 punti di quarant’anni fa in termini di costo del denaro rapportato al prodotto interno lordo.
Dobbiamo preoccuparci dell’Inflazione?
Fatta questa panoramica la domanda è la seguente: dobbiamo preoccuparci dell’inflazione?
Premesso che per rivedere un’inflazione in stile anni ’70 ci sono voluti due eventi che non si ripetono tutti i giorni, come una pandemia globale e una guerra che tutt’ora è in corso, sul tema in questione ci sono due teorie:
La prima teoria sostiene che l’inflazione, quando si presenta in modo sostenuto è destinata a durare almeno trent’anni, salvo ovviamente assestamenti che spesso finiscono per rappresentare delle illusioni. In questo periodo, secondo alcuni studiosi, subentrano una serie di meccanismi, come ad esempio ”l’aumento di potere della forza salariale” o la “bassa natalità”, che finiscono per rendere permanente l’inflazione per molti anni.
La seconda teoria, alla quale ci avviciniamo maggiormente come pensiero, sostiene che l’inflazione ritornerà a ridimensionarsi una volta che la situazione geopolitica avrà visto dei miglioramenti importanti. Dalla guerra tra Russia e Ucraina a quella commerciale tra Usa e Cina che ormai è in piedi da ben 5 anni. In ogni caso, a parte la questione geopolitica non mancano elementi per essere ottimisti riguardo a un forte ridimensionamento dell’inflazione.
Noi crediamo semplicemente che non possiamo sempre rifarci a modelli passati risalenti a 50 o 40 anni fa e pensare che la storia si ripeta allo stesso modo.
In questi anni ciò non è dovuto solo alla competitività salariale generata dalla globalizzazione. Il fattore principale che ha determinato un vero e proprio reset sulla crescita dei prezzi, facendoci dimenticare la parola inflazione è stato senza dubbio l’evoluzione tecnologica.
Forse il termine robotizzazione è stato oscurato in questi mesi da un’inflazione che niente ha di correlato alla forza lavoro, se non a causa della problematica relativa alla supply-chain, messa duramente a prova di stress test se consideriamo quanto è accaduto negli ultimi due anni.
I salari in Usa ad esempio parlano da soli, crescendo a un ritmo del 6,7 contro il 9,10% dell’inflazione a luglio. Altroché potere salariale! Qui stiamo parlando di una perdita reale dei salari di quasi 2,5 punti in un anno, per non parlare di quanto sta accadendo in Europa, in cui il differenziale tra crescita salariale e inflazione è decisamente più ampio.
La parola “generazionale” nel terzo millennio fa sorridere se pensiamo alla velocità con la quale si muove la civiltà moderna e con essa il ciclo economico. La generazione boomer, X e Y, sembrano ormai lontane anni luce se pensiamo al sempre più frequente frazionamento di quelle nuove, dettate appunto dall’evoluzione tecnologica che ha caratterizzato gli ultimi 20 anni.
Detto questo, pertanto preferiamo vivere il breve nella sua oggettività più totale, piuttosto che pretendere di avere la presunzione di estrapolare quello che sarà fra 30 anni. Magari a quella data, chi vivrà ancora, potrà raccontare di aver vissuto a ridosso degli anni 20/30 la più grande deflazione della storia. Chissà!
Tutto ciò per dire che fare estrapolazioni a lungo termine, presenta un coefficiente di errore estremamente elevato, perché fatto semplicemente su dati statici, senza tener conto dei cambiamenti che a posteriori hanno disegnato la storia. Forse qualcuno negli anni ’70 o agli inizi degli anni ’80 aveva fatto previsioni di lungo sulla base dell’avvento dei computer o di internet?
Quindi, riassumendo, crediamo che l’inflazione ad oggi non sia un problema, visto che molte variabili oggettive stanno volgendo in favore di un suo ridimensionamento. In primis le materie prime che raffrontate anno su anno nei prossimi mesi contribuiranno a far calare in modo sostanzioso i prezzi al consumo, visti i crolli subiti negli ultimi due o tre mesi.
A ciò si aggiunge un raffreddamento della domanda, sia in Usa che in Cina, in atto già da diversi mesi. In Cina ad esempio assistiamo a un calo dei prezzi sugli immobili e ciò potrebbe accentuare ancora di più la domanda.
Guardando agli Usa, invece, la curva dei tassi si è invertita al ribasso. Questo accade quando i tassi a 1 anno si trovano su livelli ben superiori a 10 anni. Una curva di questo tipo generalmente anticipa di qualche mese una recessione e con essa una diminuzione dei consumi e degli investimenti, con conseguenze positive sull’inflazione. Piuttosto nei prossimi mesi più che di inflazione dovremo guardare proprio al ciclo economico.
Infatti, se ad agosto l’inflazione ha dato segnali di ridimensionamento che dovrebbero essere più incisivi da dicembre in avanti, il mercato ben presto si interrogherà sulle conseguenze, in termini di utili aziendali, di una probabile recessione anche seppur leggera (allo stato attuale). In questo caso le società quotate si dovranno raffrontare con tassi al 3,20 a 12 mesi (rendimento certo) rendendo gli investitori molto esigenti e poco tolleranti di fronte a risultati inferiori alle stime.
L’ultima volta che i tassi a 1 anno si trovavano sopra il 2,5% era settembre 2018 e il mercato azionario si apprestava ad affrontare uno dei trimestri più difficili degli ultimi dieci anni.
Conclusione
In materia di investimenti è doverosa la massima diversificazione. Con rendimenti sopra il 3% nel breve, molti investitori saranno attratti (giustamente) dal creare liquidità per posizionarsi su rendimenti certi, a spese di società troppo legate al ciclo economico (auto, viaggi e beni di lusso). Settori anticiclici sono invece il Pharma e il Food, mentre la componente tecnologica è sempre ben vista in ottica di lungo.
Da non sottovalutare i mercati emergenti, soprattutto per quanto riguarda la parte obbligazionaria e il settore high yield, dal momento che consideriamo un ridimensionamento dell’inflazione nei prossimi mesi.
Fabrizio Taccuso | Consulenza Vincente